Capire e conoscere la musica può aiutare un individuo a distinguere i suoni, in particolare a riconoscere le parole, una capacità importante per imparare a leggere. È quanto afferma una ricerca, coordinata da un gruppo di neuroscienziati del Massachussets Insitute of Technology (MIT), che ha mostrato i benefici dello studio del pianoforte nella comprensione del linguaggio. I risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences.
Studi precedenti hanno mostrato che musica e linguaggio hanno aspetti simili. Non è un caso infatti che i musicisti siano anche più abili nella comprensione degli scritti, nel distinguere una conversazione dal brusio di sottofondo e nell’elaborare rapidamente il linguaggio verbale. Per approfondire questo collegamento, i ricercatori hanno studiato gli effetti di un training di pianoforte di 6 mesi in un gruppo di bambini pechinesi di età compresa fra i 4 e i 5 anni. I piccoli partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi. Al primo sono state impartite tre lezioni di pianoforte a settimana, al secondo tre lezioni extra di lettura; l’ultimo invece non ha ricevuto alcun training.
In base ai risultati, i bambini che hanno frequentato le lezioni di pianoforte (lezioni di base per la conoscenza delle note e dei loro simboli) riescono meglio di tutti nel riconoscimento di parole molto simili fra loro, che differiscono soltanto per una consonante. E sia il gruppo che ha studiato musica sia quello che si è dedicato alla lettura mostra una maggiore capacità nel riconoscere parole che cambiavano soltanto per una vocale. Da un’elettroencefalografia, una semplice analisi per misurare l’attività cerebrale, gli autori hanno osservato una maggiore attività nei bambini che avevano preso lezioni di pianoforte, rispetto a tutti gli altri, quando ascoltavano una serie di toni associati a parole diverse (nel cinese mandarino, la lingua dei partecipanti, due parole possono essere diverse anche soltanto per il tono). Il risultato suggerisce che la scuola potrebbe investire nella musica, spiegano gli autori e, tale scelta, potrebbe avere come esito una
migliore comprensione dei suoni del linguaggio, un elemento chiave anche per la lettura.
Qual è il punto a cui vogliamo arrivare raccontandovi questo studio? Che ogni allenamento, anche se sembra sconnesso dall’obiettivo finale, porta sempre i suoi frutti e li rende unici ed indelebili nel tempo.
Allenarsi mentalmente significa porre le basi per il tuo corpo, la tua professione, la tua vita provata e per ogni altro aspetto. Si è sempre detto che la mente comanda il corpo ed è cosiì senza dubbio: gli studi ne hanno dato conferma.
Nel nostro cervello, durante le fasi di apprendimento, aumenta la produzione di una proteina chiamata ARC (Activity-regulated cytoskeleton-associated). Questa proteina deve essere disattiva e rimossa per poter ricordare nuove informazioni. Un meccanismo di attivazione e rimozione, dunque, identificato grazie alla ricerca di Mark Wall, direttore di Scienze Biomediche all’Università di Warwick (UK) e dei suoi collaboratori dell’Università Bradford (UK) e dell’Università della Georgia (USA). E che potrebbe essere di grande aiuto nella comprensione del funzionamento della memoria in malattie come l’Alzheimer. Nello studio, pubblicato su Neuron, gli scienziati hanno lavorato su un modello murino con una forma mutata di proteina ARC, che non poteva essere “spenta” o rimossa dal tessuto cerebrale. I topi con questa mutazione hanno mostrato un comportamento normale ma con specifici deficit nella flessibilità cognitiva. Questa caratteristica è quella che ci consente di imparare e adattarci al mondo che ci circonda, raccogliendo e ricordando nuove informazioni, come dati visivi e sonori, per dirci cosa fare e come reagire alle situazioni che cambiano. Nelle persone con malattie neurologiche come l’Alzheimer, la flessibilità cognitiva è ridotta, e questo causa alterazioni del comportamento, confusione e incapacità di apprendere e ricordare nuove
informazioni, come la posizione di un edificio o il nome di una persona. “Per capire i nostri risultati – spiega Wall – possiamo fare questo esempio: immaginiamo di soggiornare in un hotel per un paio di settimane.
Dopo la prima settimana, il gestore ci cambia la stanza ma non ci dice dove si trova quella nuova. Per trovarla, dovremmo provare la chiave nella porta di ogni camera dell’albergo finché non si apre quella assegnata. Tuttavia, la volta successiva, ritornando all’albergo, potremmo localizzare rapidamente la stanza ricorrendo a una serie di segnali spaziali, tipo il piano al quale si trovava la stanza, quanto fosse lontana dall’ascensore e se fosse vicina a un’uscita antincendio”. Questo è quello che accade in condizioni normali.
Immaginiamo ora una situazione in cui ogni volta che torniamo in albergo dobbiamo provare la chiave in ogni stanza finché non abbiamo trovato la nostra. Questa incapacità di regolare la strategia per trovare la posizione della nuova stanza è chiamata inflessibilità cognitiva, ed è quello che succede se la proteina Arc non viene disattivata correttamente. Invecchiando, questo comportamento alterato si verifica più frequentemente. E, cosa più importante, questo tipo di comportamento si trova in alcune forme di neurodegenerazioni, compreso il morbo di Alzheimer. Sarebbe dunque, concludono i ricercatori, proprio la mancanza di flessibilità cognitiva e l’incapacità di imparare e ricordare nuove informazioni l’effetto del mancato spegnimento della proteina ARC e della sua persistenza nel cervello.